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La Stanza Bianca

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Ne avrebbe conservato memoria in seguito, forse, quando i frammenti che gli ruzzolavano nella testa fossero andati al loro posto.

Più tardi, quando il corpo fosse stato meno afflitto da quella devastante sensazione di spossatezza e la mente consapevole di sé, avrebbe ricordato tutto quanto accaduto sin lì e, soprattutto, il motivo per cui si fosse ritrovato in quel letto dalle lenzuola candide e inamidate, svuotato di ogni energia.

O forse, più probabilmente, non avrebbe ricordato nulla.

Da quando era tornato ad affacciarsi nel regno dei vivi, percepiva di aver abbandonato una parte significativa di ciò che era sempre stato sino all’episodio che l’aveva condotto sin lì, in quella notte da cui era appena risorto: il dominio del proprio corpo.

Non riusciva a muoversi.

I muscoli dei suoi arti parevano inchiodati a quel lettino d’acciaio, spenti e privi di vita mentre la schiena, un tempo forte e resistente, adesso sprofondava inerte nel materasso sottile e scomodo, tristemente curvo sotto il suo peso inutile.

All’inizio, quella situazione di forzata immobilità l’aveva indotto a credere di essere morto per davvero ma, una volta trovato il coraggio di fessurare le palpebre, l’invadente luce al neon aveva trafitto le sue iridi chiare, convincendolo che il giorno della sua morte fosse ancora di là da venire.

Abituatosi al chiarore della stanza, non era più riuscito a ritornare in quel mondo silenzioso dal quale proveniva e adesso giaceva lì, immobile, con gli occhi semichiusi a fissare il soffitto e lacrime a imperlargli le guance, a dire il vero indotte più dall’eccessiva luminosità dell’ambiente che da un improvvido moto di commiserazione verso se stesso.

Del resto, piangersi addosso non sarebbe servito a niente.

Proprio loro, le lacrime, lo avevano reso cosciente di essere condannato all’immobilità: nel tentativo di asciugare le guance e il contorno degli occhi aveva provato a sollevare il braccio destro, ma l’arto era rimasto inchiodato al lettino dopo essere stato trapassato da un dolore lancinante, una scarica elettrica penetrata dalla scapola destra sino al rachide cervicale che gli aveva spezzato il fiato.

Ciò nonostante, l’uomo non si era dato per vinto e aveva deciso di riprovarci con il braccio sinistro, ottenendo l’identico risultato: aveva poi cercato di muovere le gambe, prima la destra poi la sinistra, ma era stato come voler sollevare una lastra di granito.

A quel punto, gli era sopraggiunta l’idea di procedere per gradi: forse, rifletteva, considerato come sono ridotto dopo ciò che mi è successo (ma morisse iddio se ricordava cosa gli era capitato!) dovrei partire dalle punte dei piedi, muoverle leggermente, e poi recuperare la sensibilità lì, su ogni singolo dito e poi su ciascun piede, con calma.

Dopo essersi ripreso dagli inutili sforzi di poco prima, Nash aveva concentrato tutte le energie sulla punta dell’alluce del piede sinistro (chissà, magari cominciando da quel lato sarebbe stato più fortunato), ma anche quel tentativo era naufragato nella frustrante consapevolezza della propria immobilità.

Vinto dalla fatica e dal tragico sospetto che, da quel giorno, avrebbe dovuto osservare il mondo da una prospettiva ben diversa rispetto a quella cui era abituato, si era assopito nuovamente e, dopo un arco di tempo indefinito, la coscienza era tornata ad affacciarsi nel regno dei vivi.

Poco alla volta, aveva notato un particolare che gli era sfuggito, prima, mentre giaceva smarrito in quel risveglio da incubo: il respiro, affannoso e irregolare, rimbombava con forza nella bocca, compressa in una mascherina, fluendo con fatica attraverso la cavità nasale intasata da un corpo esterno.

In effetti, convergendo le pupille sulla punta del naso, Nash aveva intravisto due tubicini fuoriuscire dalle narici verso direzioni opposte, lungo le guance del suo viso pallido e scarno.

Ciò che l’uomo non poteva vedere era il macchinario centrale, una sorta di astronave piena di tasti e levette, cui il respiratore artificiale era collegato: l’apparecchio illuminava il biancore della stanza emettendo bagliori a intermittenza, rossi e verdi, che sferzavano l’aria immobile con mesti bip, simili a inquietanti rintocchi funebri.

Senza preavviso, l’andamento sinusoidale di quell’insolito risveglio lo trascinò nuovamente verso il baratro dell’incoscienza: mentre prestava attenzione ai tubicini, cercando di capire per quale ragione gli fosse impedito anche il semplice atto della respirazione spontanea, avvertì una fitta di dolore al cervello, una sorta di punteruolo rovente la cui forza si irradiava in cerchi via via più larghi e insistenti, provocandogli urla di sofferenza, brevi e continue.

– Sicuramente qualcuno mi sentirà! -, pensava l’uomo mentre subiva quelle fitte lancinanti, irrigidendo il tronco e gli arti come a volersi liberare di quel dolore, trincerato in un contenitore oramai superfluo.

– Qualcuno mi sentirà! Qualcuno verrà in mio soccorso! Un medico! Un infermiere! -, gli parve di gridare attraverso il respiratore anche se, sospeso in quella dimensione amorfa e impalpabile, dove tutto è al contempo inondato di luce e minacciato dalle tenebre dell’oblìo, non era sicuro di aver effettivamente emesso quella disperata invocazione d’aiuto.

Forse, aveva semplicemente immaginato di vedere se stesso da una prospettiva extracorporea, osservando quel tronco inutile contorcersi negli ultimi istanti di un’esistenza oramai compromessa.

Eppure, smarrito in quel dolore costante, era sicuro di non essere solo, nella stanza bianca.

Intravide un volto: un uomo giovane e ben rasato, con folti capelli scuri e lunghe basette a incorniciare due occhi color del mare. Non fosse stato per il camice bianco, avrebbe giurato di riconoscere la propria immagine riflessa in uno specchio: il ricordo di se stesso, forte e sano come una volta, nuovamente a portata di mano.

Se solo fosse riuscito a muoversi.

– Lo stiamo perdendo! -, sentì urlare nella stanza.

E di colpo un caotico sovrapporsi di voci, un nervoso sbattere di porte, un isterico scalpiccìo di suole in cuoio rimbombare sul pavimento della stanza, anch’esso bianco e sfavillante di luce.

Un movimento frenetico di mani lungo il suo tronco morto.

– Lo stiamo perdendo cazzo!! Avanti con quel defibrillatore! Adrenalina! Una puntura di adrenalina!!! Veloci! Veloci! –

Un nuovo arco di tempo indefinito, in quello strano incedere sinusoidale della propria esistenza: Nash ha smesso di pensare, non riflette più.

Semplicemente, decide di abbandonarsi al dolore di quel punteruolo incandescente che rimestola il suo cervello, confondendone i ricordi…..

Silenzio.

– Niente, non c’è niente da fare. Il ragazzo è andato –

La stanza bianca rimane assorta nel silenzio, fagocitando la mortalità di quegli uomini in camice bianco in una bolla di rassegnata impotenza.

Nash avverte che il dolore alla testa è finalmente sparito, ma continua a non capire: avvolto in un mantello di inesorabile distacco, osserva il suo corpo avvolto in un lenzuolo, candido anch’esso.

Riscossosi, prova ad attirare l’attenzione dei medici urlando a squarciagola attraverso il respiratore artificiale ma, come un film muto, dalla sua bocca non proviene alcun suono.

Come se non bastasse, nota con disappunto che il lenzuolo è troppo corto, e gli lascia scoperti i piedi.

Non gli sono mai piaciuti, i suoi piedi.

Al di là di quel dettaglio, è infastidito dalla propria impotenza, dal non essere in grado di comporre l’antinomia esistenziale che, senza preavviso, gli si è posta di fronte: lui è vivo, su quello non c’è alcun dubbio ma, in maniera altrettanto incontrovertibile, vede quel lenzuolo steso sul suo corpo e, molto più tardi (ma non saprebbe dire quanto più tardi), una folla di gente vestita di scuro, in una fredda mattina autunnale, dare un ultimo saluto a quelle spoglie inchiodate in una bara che, con lentezza quasi snervante, viene calata nella fossa.

C’è chi piange, chi simula il proprio dolore con la stoffa di un attore consumato, chi ancora non si prende nemmeno la briga di recitare, accendendosi una Marlboro nell’attesa di potersi finalmente sottrarre a quella pioggia fastidiosa.

 Nash non riconosce nessuno dei presenti.

Eppure, al di là di quest’immagine, egli percepisce con chiarezza la propria corporeità stagliarsi ancora lì, in quella stanza chiara e fredda, ed osserva se stesso lottare contro l’immobilismo di quel corpo che non è più suo, i lineamenti del volto tesi nello sforzo di ricordare un passato che è già oblìo.

Un incubo, una profezia o forse, più semplicemente, una serie di visioni appartenenti ad un altro mondo, il parto confuso di una mente alterata da qualcosa di indefinibile.

E forse, presto o tardi, qualcuno verrà a svegliarlo.


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